Esistono libri dell’orrore capaci di parlare di tematiche dell’identità, della ricerca del proprio posto del mondo o di chi – o cosa – ce l’ha tolto e molto di più, nel contempo facendoci gelare il sangue ed immergere in un’atmosfera di paranoia.
Uno dei miei libri del cuore da questo punto di vista è “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson.
Trovate una mia recensione su Libroterapia.net.
È uno di quei romanzi di cui si potrebbe parlare per ore e da ogni nuova chiacchierata, da ogni nuova recensione che mi capita di leggere tutto si rimette in discussione.
Ho continuato l’indagine sulla narrativa di Shirley Jackson in un percorso portato avanti da due tra le sue traduttrici, Silvia Pareschi e Simona Vinci, dalle cui parole è emerso quanto la narrativa di Shirley Jackson sia un’indagine velata sui danni psichici arrecati dalla società alle donne della sua epoca.
Dell’incipit di Hill House Stephen King scrive su Danse macabre:
Credo che questo sia uno dei migliori brani descrittivi della letteratura americana, il tipo di quieta epifania che ogni scrittore spera di ottenere: parole che trascendono le parole stesse per costituire un totale superiore alla somma delle parti.
(tratto da “Danse macabre“, Stephen King, introduzione e cura di Giovanni Arduino, traduzione di Edoardo Nesi, Frassinelli, 2016, pag.296)
Questa è la sua recensione: godetevela e se da questa molteplicità di voci vi sarà venuta voglia di leggere Shirley Jackson, ecco la porta per entrare a Hill House :).
L’incubo di Hill House: la recensione di Federica De Benedictis
C’è un motivo per cui amo così tanto le storie gotiche, le novelle di fantasmi, i romanzi del brivido. E’ la capacità di spaventare senza rivelare.
Di far serpeggiare il terrore sussurrandolo non apertamente, senza gesti plateali, senza particolari scabrosi, senza salti eclatanti sulla poltrona.
Insinuando il pensiero che, forse, il vero orrore alberga dentro la nostra mente e il circostante è solo un veicolo per incanalare i nostri lati d’ombra, le nostre sofferenze, le nostre insicurezze.
Beninteso, non è una dote da tutti: sono pochi gli autori capaci a plasmare questa materia insidiosa non cadendo nell’odioso effetto splatter. Dotatissima fu Shirley Jackson, autrice americana attiva nella prima metà del XX secolo che della sua vita travagliata fece benzina per il motore della scrittura gotica, in particolare del suo capolavoro “L’incubo di Hill House”.
“L’incubo di Hill House” è universalmente riconosciuto come uno dei migliori racconti di fantasmi esistenti e leggendolo non si fatica a capire il motivo del suo (meritato) successo. Arrivata all’ultima pagina – dopo aver divorato le precedenti in una manciata di giorni – mi sono detta: “Ho finalmente trovato un contendente a The Turn of The Screw per lo scettro di migliore storia di fantasmi.”
Breve inciso per chi non conoscesse “The Turn of The Screw”, in italiano “Il Giro di Vite“: recuperate assolutamente la lettura di quel gioiello di paura serpeggiante e ambiguità scritto da Henry James nel 1898. Inciso concluso. Ora i riflettori sono tutti per Miss Jackson e per la sua alter ego di carta, Eleanor detta Nell, il personaggio con cui vediamo e viviamo in soggettiva la vicenda che si dipana lungo le pagine magnetiche del romanzo.
Un accenno di trama. Eleanor, dopo la morte della madre e una vita incolore, decide di accettare una proposta bizzarra per dare una svolta alla sua piatta quotidianità: un soggiorno-esperimento condotto dal professor Montague in una casa (forse) infestata insieme ad altri due sconosciuti, la sensuale Theodora e lo scanzonato Luke, nipote della proprietaria della magione.
“T’arrise la vittoria, t’arriderà l’amor”.
La frase, tratta dall’opera lirica Aida, affiora spesso fra le righe della narrazione, una cantilena, o un mantra chissà, nella testa di Eleanor. Vittoria e sconfitta, amore e odio.
Eleanor che vive la missione proposta dal professor Montague come un gioco a premi, dove il premio è la sua libertà dai condizionamenti familiari, dalla soggezione verso la madre prima e la sorella poi. Eleanor che ha trentadue anni ma dice di averne due di più a Theodora, forse perché il peso del suo passato aggiunge peso anche al vissuto anagrafico, e che allo stesso tempo si comporta come un’adolescente alla scoperta degli altri e delle sue stesse pulsioni, ebbra di novità e di indipendenza.
Ma la vera protagonista del romanzo, a mio parere, non è Eleanor, e non è Theodora, o Luke, o il professore. Non è nemmeno una persona. La protagonista indiscussa del romanzo della Jackson è Hill House stessa, descritta come una casa
“disumana, non certo concepita per essere abitata, un luogo non adatto agli uomini, né all’amore, né alla speranza.”
Una casa dove tutto trasuda movimento nell’immobilità, dalle pareti sulle quali compaiono improvvise scritte inquietanti alle porte che si aprono e chiudono da sole, alle risate senza volto per finire con le colline attorno che paiono muoversi fino ad fagocitare le austere mura, la torre buia, ogni piastrella e mattone di quel luogo maledetto.
Maledetto da cosa e da chi, non lo sapremo mai.
O meglio, ciascuno di noi potrà leggere la sua risposta fra le righe del libro. Perchè ognuno alberga nel proprio ignoto, ognuno arreda con i propri, personalissimi incubi la sua privata Hill House.
Federica A. De Benedictis, Dire Fare Mole