Buongiorno!
Cos’è che fa sì che, quando siamo al cinema, tremiamo, speriamo e gioiamo all’unisono, come avessimo un unico corpo e un unico cuore?
Vi siete mai chiesti perché, anche se siamo molto diversi dal nostro vicino di poltrona al cinema o di divano quando leggiamo, finiamo per provare le stesse emozioni in determinati snodi della trama o per amare e odiare gli stessi personaggi?
Al contrario, a volte non veniamo catturati dalle stesse emozioni, perché anche nella realtà, ad esempio, ci spaventano cose diverse.
Di generi, premesse ed effetti su di noi
I generi, cinematografici e letterari, sono caratterizzati da premesse diverse, e anche da effetti differenti su di noi che ne fruiamo: per parlarne qui, parto oggi da concetti che arrivano dal campo filosofico dei film studies e in particolare, se vi interessa un po’ di bibliografia per approfondire, da questi testi (in inglese perché, che io sappia, non sono stati tradotti in italiano):
- Embodied visions: Evolution, Emotion, Culture and Film, Torben Grodal, Oxford University Press Inc, 2009
- Moving pictures. A new theory of film genres, feelings and cognition, Torben Grodal, Clarendon Press, 1999
- Passionate Views. Film, Cognition and Emotion, a cura di
Quello di cui vi ho parlato in apertura succede grazie alla “prefocalizzazione dei criteri” che i generi cinematografici possiedono: questo significa che le nostre emozioni sono suscitate in maniera consapevole grazie a degli inneschi che servono proprio a suscitare la nostra risposta. È come se le emozioni, per poter arrivare anche a noi, venissero in precedenza, dallo scrittore o dal regista, inghiottite e poi fatte uscire in modo controllato e preciso, rispettando così le convenzioni dei generi.
Perché raccontiamo e leggiamo storie?
Faccio qualche esempio, tratto dai libri che vi ho nominato qui sopra, così diventa ancora più chiaro:
– Il raggiungimento di obiettivi da parte dei protagonisti è spesso uno degli elementi centrali del nostro raccontare storie. Spesso, per arrivarci siamo costretti a passare con loro attraverso ostacoli ed esperienze negative, che assumono però una connotazione positiva grazie al finale.
Da un punto di vista biologico-evoluzionistico, la tristezza che costituisce la nostra risposta al genere del melodramma è un’emozione negativa motivata da una separazione (al contrario dell’attaccamento, del legame con un’altra persona che fa scaturire un’emozione positiva).
Siamo appassionati ai melodrammi e alle storie tristi perché il dolore è una reazione alla separazione e alla perdita e assicura, sempre in termini evolutivi, coesione sociale tra noi esseri umani. E non solo: sempre in questa prospettiva evoluzionistica studiata da questo filone filosofico dei film studies, la tristezza è contagiosa e ci spinge a prenderci cura di altri esseri umani e, in più, saremmo portati a favorire legami con altri membri del gruppo e ad evitare di abbandonarlo. Ecco perché, in questa visione, proviamo le stesse emozioni anche davanti ad un film o ad un libro triste.
– Nel genere horror, invece, ciò che per noi è normale e conosciuto, che non ci riserva di solito sorprese, viene rovesciato: perdiamo il controllo cognitivo sugli eventi, su corpo e mente, e come riflesso facciamo uno sforzo per mantenere un’autonomia rispetto al caos dell’incontrollabile, in sincrono con i personaggi. Agiamo con loro, spaventati dalle stesse minacce, perché la perdita di controllo su ciò che conosciamo è una paura recondita su cui gioca il genere.
Al cinema e sul divano ci stringiamo, sussultiamo e piangiamo con gli altri, e per un momento tutte le altre differenze che ci separano nella vita e che ci separeranno di nuovo di lì a poco, se noi glielo permettiamo, non esistono più.
Anche per questo, succede che quando usciamo dal cinema o terminiamo un romanzo le storie continuino ad esercitare la loro malìa e ci facciano percepire più vicini agli altri, riconoscendoci esseri umani con un terreno comune, anche quando lo spettacolo finisce e si gira l’ultima pagina.