Buongiorno a tutti!
Credo di aver già raccontato quanto io sia una creatura mattiniera: penso di averne capito meglio il perché di recente e mi sono tornate in mente queste parole:
-Per molti di noi succede al mattino. Non sono che una manciata di secondi…quando usciamo dal sonno ma non siamo ancora veramente svegli. Per quei pochi secondo siamo creature più primitive di quanto saremo durante il giorno. Abbiamo dormito lo stesso sonno dei nostri avi più remoti, e qualcosa del loro mondo ci è rimasto addosso. Per un po’ siamo informi, incivilizzati. Non i “noi stessi” che conosciamo, ma esseri più in sintonia con un albero che con un computer. Non abbiamo qualifica né nome, siamo solo natura, sospesi fra passato e futuro, il girino prima della rana, il bruco prima della farfalla. Per quei pochi istanti, siamo tutto quello che potremmo essere. Qualunque cosa. E poi… […] …E poi, ah, apriamo gli occhi, e il giorno ci aspetta, e… – schioccò le dita – diventiamo noi stessi.
(tratto da “Stargirl”, Jerry Spinelli, traduzione di Angela Ragusa, Mondadori, 2001, pag. 93-94)
Provate ad osservare le persone durante una passeggiata di mattina molto presto.
Capisco di essere facilitata nell’isolare alcune scene, vivendo in un paese invece che in una città.
Cose come un uomo che parla con il suo cane, una donna che si piega a mordere un croissant prima di andare al lavoro, un anziano con il giornale sottobraccio che torna a casa, la natura che un po’ si stiracchia.
Cosa c’entra tutto questo con l’articolo di oggi?
C’entra eccome: quando ci chiediamo dov’è la nostra felicità, molto spesso non è nei mille stimoli che abbiamo, ma nelle cose piccole che vediamo la mattina presto.
Come ovviare al grande problema del nostro tempo
Dopo una vacanza a ritmo lento e rilassato, ho pensato ancora di più che un problema delle nostre giornate sia di essere inondati di stimoli, troppi stimoli.
Apriamo un qualunque social e, se non si è già focalizzati su quanto dobbiamo fare, veniamo invasi da cose da fare, infomazioni da avere, posti in cui andare, stati d’animo a cui aderire: un‘arma di distruzione di massa dei buoni propositi di concentrazione, in pratica.
Il nostro cellulare, se non siamo bravi a non ascoltarlo o a silenziare le notifiche (io ho adottato da anni lo stratagemma di avere una suoneria soltanto per le chiamate e le notifiche mute), ci invita a distrarci, a preferire l’immediata gratificazione della novità.
Di più ancora: se non siamo concentrati e fermi su ciò che vogliamo portare avanti nel nostro lavoro, rischiamo di farci portare qua e là da mille attraenti opportunità.
Tutto questo ha parecchi risvolti nel lavoro da liberi professionisti: troppi corsi, collaborazioni senza riflettere o scegliere davvero, muoversi sempre in due e non sulle proprie gambe, “Sì” detti senza pensare troppo.
Il rischio da liberi professionisti di essere costantemente in balia di troppi stimoli si traduce spesso in un
1. perdere la rotta -> non fare quello che vorresti/che volevi fare;
2. uscirne sfinito, senza più energie.
Ancora: a volte, assecondare i tanti stimoli diventa un modo per non scegliere e per non assumersi responsabilità, nel non perseguire una strada consapevolemente: faccio faccio faccio, qualcosa uscirà (ma magari non era quella che volevi e avresti trovato soltanto fermandoti a riflettere e creando il tuo cammino).
Questo accade nel medio-lungo termine, che è però sempre determinato dal breve termine, da ciò che facciamo ogni giorno: se ci prendiamo la nostra responsabilità nel resistere per portare a termine il lavoro, lo studio che ci eravamo prefissati, invece di riportarla all’esterno, ritorniamo al nostro libero arbitrio, invece di sentirci in balia di un destino già scritto per noi (può sembrare un’esagerazione, ma la sensazione e la percezione possono essere davvero queste).
Un racconto dalla quarantena
Ci sono stati tanti racconti della quarantena.
Il mio non c’è stato perché, fondamentalmente, ero troppo impegnata a fare per non pensare.
Naturalmente me ne sono accorta solo a posteriori: spaventata anche dalla miriade di offerte lanciate in quel periodo in cui riconoscevo spesso il panico, incapace in quel momento di soffermarmi a fare ipotesi su ciò che sarebbe accaduto (che, devo dire, è qualcosa che mi appartiene poco in generale), ho reagito lavorando tantissimo e facendo tanta, troppa formazione.
Fare troppo non va sempre bene, anche se la nostra società ci spinge a pensarlo: nel libro “40 libri per 40 emozioni” di cui vi ho già parlato, dandovi altri spunti, qui, lo psichiatra e psicoterapeuta Christophe André dice proprio che la nostra società va di fretta, ci esorta ad accelerare troppo e non a coltivare la nostra vita interiore, dove si trovano le nostre risposte.
La vita interiore, dice André in un passaggio del libro, ha la funzione di farci accettare poi il mondo, ha il suo senso nel tornare poi verso verso la vita esteriore, aumentando così la nostra sensibilità verso la bellezza del mondo.
I discorsi sulla tecnologia che la demonizzano in sé sono sciocchi: ma non deve, comunque, diventare una scusa per non pensare più e demandare tutto, o per non restare più in solitudine con sé stessi e non prendersi, appunto, la responsabilità di pensare.
Dobbiamo poter disporre noi del nostro tempo, non farci sballottare qua e là con la sensazione di non poterlo gestire.
Le storie che curano
È soltanto nelle storie che questi Dei si mostrano ancora. La mente è fondata nella sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo “fare” è “poiesis”
(tratto da “Le storie che curano”, James Hillman, Raffaello Cortina Editore, 1984, pag.III)
Il modo in cui immaginiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci apprestiamo a viverla, perché la maniera in cui ci diciamo cosa sta accadendo è il genere per il cui tramite gli avvenimenti diventano esperienza. Non ci sono nudi eventi, fatti chiari, semplici dati; anche questa, semmai, è una fantasia archetipica: il semplicismo della natura bruta (o morta).
(ivi, pag.29)
Ho avuto modo di notare che chi si è formato fin dall’infanzia un senso del racconto è in condizioni migliori rispetto a chi non ha avuto storie, non le ha udite, lette recitate o inventate; e qui mi riferisco alle storie orali, quelle che si affidano soprattutto alla parola – e anche leggere ha un aspetto orale, anche quando si legge da soli e in silenzio – più che a quelle viste sullo schermo o in un libro illustrato. Una precoce consuetudine con i racconti abitua all’esperienza della loro efficacia.
(ivi, pag. 60)
Suggerimento di lettura: “La scrittura non si insegna“di Vanni Santoni. Butta via tutte le tue convinzioni e fai le cose importanti, prendendo sul serio il mestiere di scrittore, è il messaggio.
“La sovrana lettrice” di Alan Bennett, per vedere l’argomento dalla prospettiva ironica di una sovrana che abdica a tutte le mille responsabilità per fare quella che le interessa davvero da un po’ di tempo a questa parte: leggere.