“I ragazzi venuti dal Brasile” di Ira Levin
Andò in sala da pranzo, sentendosi vuoto dentro e con la testa rintronata, come se le sue componenti attive fossero altrove (ad Auschwitz?) e soltanto i suoi indumenti, la pelle e i capelli lì a Worcester, seduti a tavola con quella gente che invece era tutta intera.
(tratto da “I ragazzi venuti dal Brasile” di Ira Levin, trad. di Adriana Dell’Orto, 2016, Sur, pag.157)
Nel settembre 1974 il dottor Josef Mengele richiama a sé in Sudamerica, dove si è rifugiato, alcuni gerarchi nazisti sopravvissuti alla cattura sotto falso nome. Il progetto di cui li mette a parte ha come scopo nientemeno che l’avvento di un nuovo Reich. La fase operativa a cui dovranno prendere parte prevede invece l’uccisione di 94 uomini in diverse parti del mondo nei successivi anni. Uomini con caratteristiche comuni: gli stessi gerarchi non sanno però il perché di un ordine di cui ci si aspetta l’esecuzione in virtù di una fedeltà ideologica mai sopita. L’ebreo Yakov Liebermann, cacciatore di nazisti con una fama leggendaria e un seguito di persone pronte ad aiutarlo, riceve una strana segnalazione da un giovane aiutante. Dapprima crede si tratti di uno scherzo, finché, indagando, non scopre un incubo da sventare. E non potrà farlo da solo.
Di Ira Levin Stephen King dice in Danse macabre:
I suoi lavori sono contraddistinti da un intreccio superlativo. Sono gli orologi svizzeri della suspense; al loro confronto, i miei e quelli dei miei colleghi sembrano patacche in svendita al supermercato per cinque dollari.
E non solo: gli riconosce la capacità di manovrare la suspense con un equilibrio da manuale, intrecci formidabili e anche sagacia e ironia.
Posso confermare ogni cosa. Mi sono innamorata di Ira Levin con un gioiello perturbante come Rosemary’s Baby che ho portato nella seconda stagione del mio percorso e ho confermato ogni impressione con La fabbrica delle mogli.
Questo romanzo mette i brividi e non si fa proprio metter giù, ve lo assicuro. Riesce a ritrarci una ferocia e una “banalità del Male” di cui vediamo spalancarsi abissi francamente agghiaccianti.
Ne è stato tratto, come da molti romanzi dell’autore, un film omonimo del 1978 con Gregory Peck e Laurence Olivier: non cercatelo, però, per non rovinarvi lo scioglimento dell’enigma che il romanzo porta con sé fino ad un punto magistrale, perché in molte trame del film viene subito rivelato.
“Un bacio prima di morire” di Ira Levin
[…] rimase in silenzio, sollevando lentamente la forchetta o il cucchiaio di turno affinché sua madre potesse vederlo e imitarlo; un tenero complotto senza bisogno di parole o segnali, che enfatizzava il loro legame e rappresentava l’unico aspetto piacevole del pasto; quello e i sorrisi che si lanciavano attraverso il tavolo quando Marion e Leo abbassavano lo sguardo sul piatto, sorrisi pieni di orgoglio e affetto e tanto più piacevoli per il fatto che gli altri due erano completamente ignari dello scambio che avveniva sotto i loro occhi.
[…] Ma nel frattempo c’era sempre quel sassolino nella scarpa.
(tratto da “Un bacio prima di morire”, Ira Levin, trad. di Daniela De Lorenzo, Sur, pag.290)
Dorothy, nata Kingship, figlia di un magnate dell’industria del rame, è innamorata di un compagno d’università con cui ha una relazione fino a quel momento felice.
Tutto cambia quando Dorothy resta incinta: non c’è altra via che sposarsi, le convenzioni sociali non consentono altro. Peccato che, certo, un figlio nato da un matrimonio così frettoloso porterà il padre a lasciare la coppia senza un soldo, nelle previsioni dei due di cui discutono parecchio. Ma tanto a loro non importa, perché quando c’è l’amore un modo si trova, non è vero?
Forse il lui della coppia ha però altri piani.
Che lo porteranno a cercare ancora di entrare in quella ricca famiglia che ha puntato, dato che da ragazzo bello ma con poca voglia di darsi da fare sente di non avere poi molte altre strade per avere la vita che sa, senza ombra di dubbio, di meritare.
Un romanzo pieno di colpi di scena, con una trama che è stata definita hitchcockiana e non a torto.
Levin scrisse il libro giovanissimo e fu il suo esordio ad appena ventiquattro anni.
L’ironia arguta e intelligente e una gestione della suspense davvero sorprendente lo rendono un romanzo da divorare, un piccolo gioiello di raffinatissimo cinismo.
Scrive ancora King in Danse macabre:
[…] la bomba di tutte le bombe di Un bacio prima di morire, la sorpresa più efficace, è prontamente sganciata dopo un centinaio di pagine. Se la scoverete sfogliando il volume a casaccio, non vi suggerirà nulla. Se invece avrete letto con attenzione fino a quel momento…significherà tutto quanto.
“Se scorre il sangue” di Stephen King
Probabilmente Franzen non aveva torto, quando parlava della fase che precedeva l’inizio della scrittura. Era un momento esaltante, perché tutto ciò che vedevi o sentivi poteva portare acqua al tuo mulino. Ogni cosa era plasmabile. La mente poteva costruire una città, rimodellarla e poi raderla al suolo mentre ti facevi la doccia, la barba o una pisciata. Una volta che cominciavi a scrivere, però, tutto cambiava. Ogni scena che buttavi giù, ogni parola, limitava un po’ di più le tue opzioni. E alla fine diventavi come una mucca che trotta su un sentiero in discesa vertiginosa, dritta verso…“No, no. Non è affatto così”, disse, sussultando anche stavolta al suono della sua voce. “Proprio per niente.”(tratto da “Se scorre il sangue”, Stephen King, trad. di Luca Briasco, Sperling & Kupfer, 2020, pag. 420)